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Rime

a cura di Letterio Cassata


Roma, Donzelli, 1995, Biblioteca, 13
cm 17.5x12, pp. L-173-(1), sovracoperta illustrata
Prima edizione. Allo stato di nuovo >>>

€ 18
Indice

Con Dante dalla parte di Guido
Introduzione di Letterio Cassata    p. VII
 
Nota biografica    XXXIII
Nota al testo    XXXV
Abbreviazioni e segni convenzionali   XXXVII
Opere citate in forma abbreviata    XXXIX
 
Rime
 
Indice delle voci annotate    155
Indice dei nomi propri nel testo    165
Indice degli studiosi citati    167
Indice dei capoversi    171
Oltre a «scoprire il giovane Dante e a segnarne indelebilmente la carriera» (Contini), Cavalcanti esercita un'influenza forte e molteplice anche su Cino e Petrarca e - direttamente o per questi tramiti - su tutta la lirica italiana, di cui può essere considerato il vero fondatore.


La sua poesia non si affida, come quella del suo «primo amico», a suggestioni oltremondane, ma ai «leggeri» argomenti umani. Tutt'altro che chiusa in sé, è sempre volta alla comunicazione e alla partecipazione, nella incantevole levità del «disincanto», dell'ironia e dell'auto-ironia. Di là dall'apparente aristocratica ermeticità, vi si sente la difficoltà oggettiva (e sofferta con angosciosa eppur spigliata consapevolezza) a cui una poesia così intimamente eterodossa non può del tutto sottrarsi: quella di essere compresa da lettori che le si accostino senza aver deposto il fardello degli schemi acquisiti.
In realtà la poesia di Guido è quasi un «unicum». Ce la fa sentire vicina a Catullo o a Saffo il senso dell'eros che riempie e distrugge la vita; d'altra parte, la profonda «ansia dell'Assoluto sentito come inattingibile approdo» (Marti) troverà lontana rispondenza in Leopardi.
A coloro che lo trovassero «molto abstratto», e volessero schernire le sue «speculazioni [...] in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse», egli potrebbe ancora rispondere, come nella novella del Decameron: «Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace». E non sarebbe risposta da «smemorato», ma verrebbe ancora a dire che chi non esce dal sepolcro dei suoi pregiudizi non può vedere quel che c'è fuori.
Forse i lettori del prossimo millennio sapranno finalmente mettere a frutto l'eredità più viva e vera della poesia cavalcantiana: la «leggerezza pensosa» in cui si risolve, quasi in numeri di danza, l'intensa e profonda esperienza di amore e dolore e di lucida drammatica introspezione.

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