Ne Il gelo, Romano Bilenchi riprende, dopo quarant'anni, il filo de La siccità e de La miseria, quasi a completare un'ideale trilogia; e lo riprende, pur con qualche variazione che cercherò di indicare, con la stessa intonazione, cadenza, essenzialità di quarant'anni or sono. ►
Il primo dato, per certi aspetti stupefacente, è dunque la naturale continuità dello scrittore; o, se si vuole, la sua vocazione alla fedeltà. È una fedeltà, quella del Bilenchi, che si radica nella forza primaria dello stile propria del suo mondo espressivo; e ci introduce perciò direttamente nel cuore della sua arte. I suoi primi critici (fra i quali egli ebbe la fortuna di annoverare Giuseppe De Robertis e Carlo Bo) posero subito l'accento sul "narratore puro". Ma quel "narratore puro" non può certo ricercarsi nel campo tradizionale del "romanzesco", perché, al contrario, lo scrittore è molto attento nel vigilare contro ogni tentazione o indulgenza verso il colorito, l'aneddotico, il patetico, l'esteriore, e contro il rischio, sempre incombente per un toscano, del bozzetto (...) Indiscutibile quindi la continuità stilistica, rimane da dire qualche parola sull'insistenza con cui lo scrittore torna ai temi dell'infanzia e dell'adolescenza. Le osservazioni da fare sono due: 1) quella di Bilenchi non è una vera e propria narrativa di memoria, tanto netta e rilevata è la presenza dei dati della realtà; 2) il ritorno continuo al mondo della prima età non è una forma di idillio o di evasione, tanto forte è nelle sue pagine il riverbero (e il dolore) di un tempo storicamente determinato. In altri termini, la scelta dell'adolescenza non è una scelta di contenuto, ma tematica; e prima ancora che tematica, è una scelta poetica. Egli (non posso che ripetere quanto ho scritto altrove) vuole cogliere, nell'adolescenza, la situazione germinale dell'assedio cui l'uomo di oggi è sottoposto; gli interessa l'esperienza della solitudine, del non-comunicare («il gelo del sospetto e dell'incomprensione» con cui apre questo racconto), vista nel momento più puro e incondizionato. L'infanzia, l'età pre-ideologica, non è infatti idoleggiata come un mito; ma è l'anticipazione, la verifica, la semplificata verità. di up modello "fatale" di rapporto con la realtà (natura e società). La riduzione del campo narrativo imposta da una simile scelta è compensata dalla risolutezza nel risalire all'essenzialità di quel rapporto, là dove ciò che accade precipita nella coscienza senza altro diaframma se non il dolore e senza altra bussola se non ristinto liberatorio della fantasia. Il dramma storico si rivela nei più elementari paradigmi dell'esistere. Capita così che nello specchio della sua prosa misurata, asciutta e come stagionata da una naturale classicità, si riflettono, con un'evidenza che ha pochi riscontri nella nostra narrativa, aspetti fondamentali e riposti di un periodo di pigra storia quale fu quello vissuto dalla provincia italiana, contadina, artigiana e piccolo borghese, sotto il fascismo, prima delle tragiche avventure di guerra. Corre nelle migliori pagine del Bilenchi una tenerezza dolente, che trae origine dall'innaturale scompenso tra fantasia e realtà sociale, tra il pudico e sorgivo fluire dei sentimenti e l'indifferenza deitempi che fu tipica di quegli anni; ma che (e con questo il cerchio poeticamente si chiude) si ripete, in varia forma e misura, ad ogni generazione, e fa parte della vita di ogni uomo, momento delicato e cruciale della scoperta del mondo. In questa luce, lo gelo si pone dunque entro la parte più significativa ed autentica dell'opera dello scrittore. (Dalla prefazione di Geno Pampaloni)
È una fedeltà, quella del Bilenchi, che si radica nella forza primaria dello stile propria del suo mondo espressivo; e ci introduce perciò direttamente nel cuore della sua arte. I suoi primi critici (fra i quali egli ebbe la fortuna di annoverare Giuseppe De Robertis e Carlo Bo) posero subito l'accento sul "narratore puro". Ma quel "narratore puro" non può certo ricercarsi nel campo tradizionale del "romanzesco", perché, al contrario, lo scrittore è molto attento nel vigilare contro ogni tentazione o indulgenza verso il colorito, l'aneddotico, il patetico, l'esteriore, e contro il rischio, sempre incombente per un toscano, del bozzetto (...)
Indiscutibile quindi la continuità stilistica, rimane da dire qualche parola sull'insistenza con cui lo scrittore torna ai temi dell'infanzia e dell'adolescenza. Le osservazioni da fare sono due: 1) quella di Bilenchi non è una vera e propria narrativa di memoria, tanto netta e rilevata è la presenza dei dati della realtà; 2) il ritorno continuo al mondo della prima età non è una forma di idillio o di evasione, tanto forte è nelle sue pagine il riverbero (e il dolore) di un tempo storicamente determinato. In altri termini, la scelta dell'adolescenza non è una scelta di contenuto, ma tematica; e prima ancora che tematica, è una scelta poetica. Egli (non posso che ripetere quanto ho scritto altrove) vuole cogliere, nell'adolescenza, la situazione germinale dell'assedio cui l'uomo di oggi è sottoposto; gli interessa l'esperienza della solitudine, del non-comunicare («il gelo del sospetto e dell'incomprensione» con cui apre questo racconto), vista nel momento più puro e incondizionato. L'infanzia, l'età pre-ideologica, non è infatti idoleggiata come un mito; ma è l'anticipazione, la verifica, la semplificata verità. di up modello "fatale" di rapporto con la realtà (natura e società). La riduzione del campo narrativo imposta da una simile scelta è compensata dalla risolutezza nel risalire all'essenzialità di quel rapporto, là dove ciò che accade precipita nella coscienza senza altro diaframma se non il dolore e senza altra bussola se non ristinto liberatorio della fantasia. Il dramma storico si rivela nei più elementari paradigmi dell'esistere.
Capita così che nello specchio della sua prosa misurata, asciutta e come stagionata da una naturale classicità, si riflettono, con un'evidenza che ha pochi riscontri nella nostra narrativa, aspetti fondamentali e riposti di un periodo di pigra storia quale fu quello vissuto dalla provincia italiana, contadina, artigiana e piccolo borghese, sotto il fascismo, prima delle tragiche avventure di guerra. Corre nelle migliori pagine del Bilenchi una tenerezza dolente, che trae origine dall'innaturale scompenso tra fantasia e realtà sociale, tra il pudico e sorgivo fluire dei sentimenti e l'indifferenza deitempi che fu tipica di quegli anni; ma che (e con questo il cerchio poeticamente si chiude) si ripete, in varia forma e misura, ad ogni generazione, e fa parte della vita di ogni uomo, momento delicato e cruciale della scoperta del mondo. In questa luce, lo gelo si pone dunque entro la parte più significativa ed autentica dell'opera dello scrittore. (Dalla prefazione di Geno Pampaloni)