“Ecco uno scrittore di Tunisi che non è né francese né tunisino... E ebreo (di madre berbera, e questo complica le cose)... Però non è veramente tunisino, glielo dimostra il primo pogrom nel quale gli arabi massacrano gli ebrei...”. Così, nel segno della differenza e della lacerazione, Albert Camus salutava nel 1952 l’uscita della Statua dì sale di Albert Memmi, uno dei romanzi più significativi della letteratura maghrebina, dove attenzione documentaria e suggestione narrativa si fondono nella dimensione della memoria. ►
Il racconto della Statua di sale affonda le sue radici nella vita di uno scrittore che — come intellettuale in cui l’ascendenza ebraica, l’ambiente arabo, la cultura francese si accostano e si scontrano, spesso dolorosamente — sperimenta lo spaesamento e la sofferenza della condizione umana di fronte alle circostanze della storia. Sono gli anni intorno alla seconda guerra mondiale. La scena è quella variopinta e solare dei vicoli e delle piazze di Tunisi, città vivissima ed eterogenea dove le separazioni tra i gruppi etnici risultano nette, le integrazioni sembrano contrarie allo stato delle cose e i contrasti fra europei e africani si duplicano negli antagonismi fra arabi ed ebrei. Alexandre Mordekhai Benillouche, il protagonista, opera una ricapitolazione delle tappe salienti della sua vita: racconta l’infanzia nel vicolo Tarfoune, adiacente al ghetto, e la scoperta del mondo nella città di Tunisi. Le tradizioni, le superstizioni delle culture popolari araba ed ebraica sono l’humus da cui egli, scegliendo i valori della civiltà occidentale, decide di sradicarsi. Sconterà la consapevolezza di sé, l’accettazione della propria diversità con la partenza verso l’Argentina, per un definitivo esilio, abbracciando la condizione di “straniero permanente”.
Il racconto della Statua di sale affonda le sue radici nella vita di uno scrittore che — come intellettuale in cui l’ascendenza ebraica, l’ambiente arabo, la cultura francese si accostano e si scontrano, spesso dolorosamente — sperimenta lo spaesamento e la sofferenza della condizione umana di fronte alle circostanze della storia.
Sono gli anni intorno alla seconda guerra mondiale. La scena è quella variopinta e solare dei vicoli e delle piazze di Tunisi, città vivissima ed eterogenea dove le separazioni tra i gruppi etnici risultano nette, le integrazioni sembrano contrarie allo stato delle cose e i contrasti fra europei e africani si duplicano negli antagonismi fra arabi ed ebrei. Alexandre Mordekhai Benillouche, il protagonista, opera una ricapitolazione delle tappe salienti della sua vita: racconta l’infanzia nel vicolo Tarfoune, adiacente al ghetto, e la scoperta del mondo nella città di Tunisi. Le tradizioni, le superstizioni delle culture popolari araba ed ebraica sono l’humus da cui egli, scegliendo i valori della civiltà occidentale, decide di sradicarsi. Sconterà la consapevolezza di sé, l’accettazione della propria diversità con la partenza verso l’Argentina, per un definitivo esilio, abbracciando la condizione di “straniero permanente”.